Origine ed evoluzione
Per secoli, sulla base dell’insegnamento di Ippocrate, il medico ha esercitato il diritto-dovere di non rivelare nulla al paziente riguardo alle sue condizioni di salute. Questo assoluto riserbo avrebbe evitato “passi estremi” al malato e, al tempo stesso, garantiva prestigio e autorità alla classe medica.
Per secoli, quindi, il consenso del malato all’atto medico non ha avuto alcuna rilevanza e rimaneva nell’ampia discrezionalità del medico la scelta delle terapie e dei sistemi di cura e se darne o (come quasi sempre succedeva) non darne conto al paziente.
Solo nel XX secolo questo paradigma è cominciato a cambiare. Quando, nel 1917, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che “ogni essere umano adulto e sano di mente ha il diritto di decidere su cosa va fatto al suo corpo” e che “il medico che esegue un intervento senza il consenso del paziente commette un’aggressione”.
In Italia, il principio del consenso informato, trova la sua più importante consacrazione nell’art. 32 della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, correlato con l’art. 13 della stessa Costituzione che afferma l’inviolabilità della libertà personale.
In conformità con il dettato costituzionale, la Legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, esclude la possibilità di effettuare accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente.
Più di recente, la Legge n. 219 del 22/12/2017 afferma il diritto di ogni persona “di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.
Infine il Codice di Deontologia Medica sancisce il principio generale secondo cui è vietato al medico di intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente e l’obbligo per il medico di desistere, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.
La situazione attuale
É quindi ormai principio consolidato che nessuna persona cosciente e capace può essere sottoposta ad un qualsiasi trattamento sanitario contro o senza la sua volontà. Ogni singolo trattamento diagnostico, ogni singola terapia, qualsivoglia intervento medico non può essere effettuato se non con il valido consenso dell’avente diritto, che sia stato compiutamente ed idoneamente informato in ordine al trattamento cui sarà sottoposto ed ai rischi che da tale trattamento possono derivare.
Pertanto oggi la legittimazione all’attività del medico non trova più il suo fondamento sul prestigio e sull’autorità del professionista, ma solo ed esclusivamente sul consenso informato del malato.
Appare, quindi, chiaro che l’informazione data al paziente costituisce parte integrante della prestazione medica che diviene essa stessa una prestazione sanitaria, al pari dell’accertamento diagnostico e dell’intervento terapeutico.
L’informativa
Per raccogliere un valido consenso è indispensabile che il medico abbia fornito un’esaustiva informativa. In effetti, secondo consecuzione logica, non si dovrebbe parlare di “consenso informato” ma più propriamente di “informazione alla quale segue il consenso”.
Ma a parte la terminologia, è chiaro che il medico ha come suo primo e principale dovere quello di esplicitare al paziente una serie di informazioni per consentirgli una scelta libera e consapevole.
In particolare nell’informativa è doveroso che al paziente sia esplicitato:
- La situazione clinica obiettiva riscontrata;
- La descrizione dell’intervento medico ritenuto necessario e dei rischi derivanti dalla mancata effettuazione della prestazione;
- Le eventuali alternative diagnostiche e/o terapeutiche;
- Le tecniche e i materiali impiegati;
- I benefici attesi;
- I rischi presunti;
- Le eventuali complicanze;
- I comportamenti che il paziente deve eseguire per evitare complicazioni successive all’atto medico.
Tutte queste informazioni devono essere rese al paziente in modo chiaro e commisurato alla sua capacità di comprensione da intendersi in senso medico e, cioè, non solo avendo riguardo al livello intellettuale del paziente, ma anche tenendo conto del suo stato emotivo e psicologico. E’ necessario, quindi, calibrare il tenore dell’informazione in modo che sia efficace al fine di far maturare nel paziente un convincimento libero, maturo e consapevole, senza inutili iper-tecnicismi e senza superficiali generalizzazioni.
E’ importante che l’informativa e il conseguente consenso sia prossimo, dal punto di vista temporale, all’atto medico, perché uno dei requisiti del consenso è l’attualità. Un’informativa resa (e un consenso raccolto) troppo tempo prima dell’intervento rischia di non essere sufficiente perché nel frattempo il quadro clinico potrebbe essere evoluto o le alternative terapeutiche potrebbero essere variate o ancora il paziente potrebbe aver maturato un diverso convincimento.
É fortemente raccomandato che il medico, specie se ospedaliero, segnali in cartella clinica, di aver debitamente informato il paziente.
Il consenso informato in forma scritta
Da quanto detto sopra, è ormai chiaro che l’informativa e il consenso sono atti indispensabili e necessari per rendere legittimo l’atto medico. Ciò non significa, però, che l’informativa e il consenso debbano essere resi necessariamente in forma scritta. Anzi, nella generalità dei casi è sufficiente che informativa e consenso siano prestati in forma orale.
La forma scritta diventa necessaria o perché vi è una legge dello Stato che la rende obbligatoria, o perché il Codice di Deontologia Medica la richiede in situazioni particolari.
Le Leggi dello Stato che rendono necessaria la forma scritta sono le seguenti:
- DPR 16/06/1977 n. 409 in materia di trapianti di organi;
- Legge 05/06/1990 n. 135 in materia di AIDS;
- Decreto Ministeriale 15/01/1991 in materia di terapia con plasma derivati ed emoderivati;
- Decreto Ministeriale 27/04/1992 in materia di sperimentazione scientifica;
- Legge 12/08/1993 n. 201 in materia di prelievo ed innesto di cornea;
- Legge 08/04/1998 n. 94 in materia di uso di medicinali al di fuori delle indicazioni autorizzate;
- Legge 19/02/2004 n. 40 in materia di procreazione assistita.
Dal canto suo, il Codice di Deontologia Medica obbliga alla raccolta del consenso informato in forma scritta per le seguenti situazioni particolari:
- Prescrizione di farmaci per indicazioni non previste dalla scheda tecnica o non ancora autorizzati al commercio, purché la loro efficacia e tollerabilità sia scientificamente documentata (in pratica ricalca l’obbligo già previsto dalla Legge 94/1998);
- Prescrizione di terapie mediche non convenzionali, che possono essere attuate senza sottrarre il paziente a trattamenti scientificamente consolidati e previa acquisizione del consenso informato scritto quando si tratti di pratiche invasive o con più elevato margine di rischio, oppure quando il paziente ponga pregiudizialmente scelte ideologiche;
- Prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche che, a causa delle possibili conseguenze sull’integrità fisica della persona o per il grave rischio che possono comportare per l’incolumità della persona, rendano opportuna una manifestazione documentata della volontà del paziente. Nella pratica si tratta delle ipotesi di:
- Interventi chirurgici;
- Procedure ad alta invasività;
- Utilizzo di mezzi di contrasto;
- Trattamenti con radiazioni ionizzanti;
- Trattamenti che incidono sulla capacità di procreare;
- Terapie con elevata incidenza di reazioni avverse;
- Trattamenti psichiatrici di maggior impegno.
Al di fuori di queste ipotesi, il consenso può essere raccolto in forma orale, fermo restando che se il medico ritiene, in scienza e coscienza e motivatamente, di formalizzare tale consenso con un atto scritto, gli è comunque consentito farlo.
Casi particolari: il paziente minorenne
La regola generale prevista dal diritto di famiglia afferma che la potestà sui figli è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori o da un solo genitore se l’altro è morto o decaduto o sospeso dalla potestà genitoriale.
Nel caso dei comuni trattamenti medici (visite, medicazioni, prescrizioni, certificazioni) è sufficiente il consenso espresso da uno solo dei genitori, in applicazione del principio generale secondo il quale gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.
Viceversa, di fronte a trattamenti medici di maggiore importanza, come quelli per i quali è necessario acquisire il consenso scritto, è necessario l’assenso di entrambi i genitori, perché gli atti di straordinaria amministrazione devono essere compiuti di comune accordo. In questi casi, l’eventuale contrasto di opinione fra i genitori va risolto dal giudice tutelare.
Giova precisare che a questo fine non rileva il fatto che i genitori siano sposati o separati o divorziati o conviventi di fatto. Quello che importa è che gli atti di ordinaria amministrazione possono essere eseguiti disgiuntamente dai genitori, quelli di straordinaria amministrazione congiuntamente o per decisione del giudice.
Tutto ciò chiarito, va anche precisato che il medico, a norma del Codice Deontologico, deve tener conto della volontà del paziente minorenne, compatibilmente con l’età e con la sua capacità di comprensione, fermi restando i diritti dei genitori. Il medico, quindi, deve prendere in considerazione l’opinione del minorenne, in funzione dell’età e del suo grado di maturità e possibilmente addivenire ad un consenso congiunto fra genitori e figlio minore. Nel caso in cui questo accordo non sia possibile e sussista un insanabile contrasto fra la volontà del minore e quella dei genitori, la decisione se eseguire o meno il trattamento sanitario deve essere rimessa al giudice tutelare.
Vi sono inoltre alcuni trattamenti sanitari per i quali la legge esclude l’obbligo di acquisire il consenso dei genitori, ritenendo sufficiente il solo consenso del paziente minorenne. Si tratta, quindi, di situazioni specifiche e particolari per le quali il medico può procedere all’atto sanitario a prescindere dal consenso o dissenso dei genitori e anche a loro insaputa.
Si tratta dei casi di:
- Accertamenti diagnostici, anche di laboratorio, e cure qualora si presentino sintomi di insorgenza di una malattia trasmessa sessualmente;
- Prescrizioni mediche e somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile;
- Interruzione volontaria della gravidanza quando il giudice tutelare abbia autorizzato la minorenne a decidere anche a prescindere dal consenso dei genitori in presenza di seri motivi che impediscono o sconsigliano la loro consultazione o che inducano a procedere contro il loro parere;
- Accertamenti diagnostici e interventi terapeutici e riabilitativi al minorenne che faccia uso personale di sostanze stupefacenti, mantenendo l’anonimato del minorenne nell’accesso ai servizi per le tossicodipendenze.
Il paziente incapace di intendere e di volere: l’interdetto
Il paziente maggiorenne per il quale il giudice abbia dichiarato l’interdizione per infermità mentale, è rappresentato legalmente dal tutore nominato dallo stesso magistrato. Pertanto il tutore ha titolo per esprimere il consenso alle prestazioni sanitarie nell’interesse della persona assistita.
In ogni caso il medico deve cercare di far comprendere la situazione anche al paziente oggetto di tutela, nei limiti in cui ciò sia possibile.
Il paziente sottoposto ad amministrazione di sostegno
Il paziente maggiorenne affetto da una infermità o menomazione fisica o mentale che si trovi nell’impossibilità, anche parziale o momentanea, di provvedere ai propri interessi, può essere affiancato da un amministratore di sostegno nominato dal giudice. L’amministratore di sostegno, quindi, non si sostituisce al paziente, ma lo supporta e lo affianca.
Il provvedimento del giudice di nomina dell’amministratore di sostegno individua i poteri dell’amministratore ed è opportuno che il medico acquisisca copia di tale provvedimento onde verificare se tali poteri si estendono anche all’ambito sanitario. Perché se così non è, il paziente è l’unico soggetto in grado di prestare il consenso, mentre se l’amministratore di sostegno ha il potere di intervenire per gli atti di natura sanitaria, allora il medico deve ricercare il consenso prioritariamente dal paziente diretto interessato, ma con il supporto e l’aiuto dell’amministratore di sostegno.
In questi casi, se dovesse emergere un contrasto fra la volontà del paziente e quella dell’amministratore di sostegno, il medico dovrebbe sollecitare un pronunciamento del giudice tutelare per dirimere il contrasto.
Il paziente temporaneamente incapace
Il paziente maggiorenne, che normalmente è capace di intendere e di volere, può trovarsi in una momentanea situazione di incapacità perché privo in tutto o in parte di autonomia decisionale o incapace di esprimere la propria volontà.
Questo può succedere, per esempio, in caso di abuso di alcol o di sostanze stupefacenti o per un temporaneo stato di incoscienza.
Si tratta, quindi, di casi in cui il paziente non è sostituito nelle sue decisioni da nessun tutore, né affiancato da nessun amministratore di sostegno.
In questi casi il medico è autorizzato a prestare le cure indispensabili e indifferibili, anche senza aver raccolto il consenso, attuando gradatamente e sequenzialmente il trattamento terapeutico in modo da portare il paziente verso un miglioramento della propria capacità decisionale e quindi di porlo in condizione di affrontare consapevolmente gli atti più complessi sotto il profilo terapeutico. In pratica in questi casi il medico raccoglie un “consenso in progress”.
Se questi tentativi non hanno successo e l’incapacità non regredisce ma anzi persiste, il medico, previo colloquio coi familiari dell’assistito, potrà ad adire l’autorità giudiziaria chiedendo la nomina di un amministratore di sostegno o altri eventuali provvedimenti a tutela del paziente.
Il paziente anziano con problemi cognitivi
Nel caso di pazienti anziani con seri problemi cognitivi che possano assurgere ad uno stato di incapacità decisionale persistente o addirittura permanente, il medico, previo colloquio coi familiari dell’assistito, potrà adire l’autorità giudiziaria per richiedere la nomina di un amministrazione di sostegno o altri eventuali provvedimenti a tutela del paziente.
Le direttive anticipate. Finalità e vincolatività
Le disposizioni anticipate di trattamento, comunemente definite "testamento biologico" o "biotestamento", sono regolamentate dall'art. 4 della Legge n. 219 del 2017. In previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, la Legge prevede la possibilità per ogni persona di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto su:
- accertamenti diagnostici
- scelte terapeutiche
- singoli trattamenti sanitari.
Possono fare le DAT tutte le persone che siano:
- maggiorenni
- capaci di intendere e di volere.
Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario nominato dal paziente qualora:
- esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente;
- sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.
Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, la decisione è rimessa al giudice tutelare.
Lo stato di necessità
Ricorre lo stato di necessità quando il medico si trova ad agire, mosso dalla necessità di salvare il paziente dal pericolo concreto ed attuale di un danno grave alla sua persona e l’intervento che effettua è proporzionale al pericolo che intende scongiurare.
In questo caso il medico è autorizzato, anche senza alcun valido consenso, a compiere tutti gli atti che ritiene non procrastinabili e necessari in modo specifico per superare quel pericolo e quel rischio.
Superato lo stato di necessità, per le successive prestazioni sanitarie occorre acquisire il consenso del paziente, ritornato capace di intendere e di volere.
Se viceversa il paziente non recupera la propria autonomia di giudizio, vale la regola già descritta a proposito dell’incapacità temporanea che persiste e cioè la possibilità di adire l’autorità giudiziaria.
Il ruolo del familiari nella manifestazione del consenso
In presenza di paziente maggiorenne capace di intendere e di volere, solo a lui spetta il diritto di esprimere o meno il consenso all’atto medico. I familiari, quindi, non hanno alcun ruolo, a meno che il paziente stesso non glielo riconosca. Ciò può accadere quando il paziente, per suo legittimo convincimento, non vuole conoscere niente della sua malattia e delega un proprio congiunto a ricevere le informazioni sul suo stato di salute. In questi casi il medico deve rispettare le decisioni del paziente e quindi fornire l’informativa al familiare indicato dal paziente stesso, ferma restando la raccolta del consenso dal diretto interessato.
Per quanto riguarda, invece, il paziente temporaneamente incapace o il paziente anziano con problemi cognitivi, si è detto dell’opportunità che il medico intrattenga sempre un “colloquio” coi familiari circa la situazione clinica dell’assistito. Bisogna tuttavia precisare che in queste circostanze i familiari non hanno un potere decisionale legalmente riconosciuto (a meno che il paziente o il giudice in precedenza non glielo abbia concesso) e il rapporto del medico coi familiari serve unicamente per condividere un percorso assistenziale e terapeutico, ma senza che le decisioni dei familiari siano di per sé tassative e vincolanti per il medico.
Solo in un caso la legge attribuisce espressamente un ruolo legalmente vincolante ai familiari: si tratta dei casi di manifestazione del consenso al trapianto di organi da cadavere. Infatti a norma di legge, in caso di morte del paziente e in assenza di un suo preventivo consenso all’espianto, questo può essere validamente prestato dal coniuge non separato, dal convivente di fatto o, in mancanza, dai figli maggiorenni o, in mancanza, dai genitori ovvero dall’amministratore di sostegno se presente.